domenica 28 agosto 2011

Precari senza rete

Ho imparato ad usare correttamente congiuntivi e condizionali da sola. oggi mi sentirei nuda se non collocassi ogni verbo nella sua giusta coniugazione. sono cresciuta ascoltando solo dialetto, sono stata la prima in famiglia a prendere una laurea, sono stata l'unica a trascorrere le serate a leggere libri e non in discoteca. Era impensabile  che potessi aspirare a fare l'archeologa, che potessi andar via dal mio paese di provincia e che potessi un giorno essere una donna realizzata.
Ho sempre lottato contro l'idea della stagnazione sociale, ho sempre avversato chi faceva della mia origine un marchio di fabbrica, ho sempre pensato che alla fine ce l'avrei fatta a salire. Si tratta di un solo gradino, quello che divide chi nasce borghese - e in casa sente usare il congiuntivo, vede quotidiani sul divano, ascolta musica jazz irradiata nel salotto, va a vedere le mostre d'arte - e chi nasce plebeo, non necessariamente povero, ma plebeo - e che in casa sente il dialetto, legge TV Sorrisi e Canzoni, ascolta Eros Ramazzotti, va in scampagnata nella pineta dietro casa.
Ma forse una cultura acquisita ce l'avrebbe fatta a colmare il divario, impercettibile per chi vede le classi inferiori come pittoresche (perchè magari sei di sinistra e fa tanto cool amare i dialetti, vedere le famiglie di ciccioni spiaggiate sul bagnasciuga con la parmigiana d'obbligo, etc...), ma sostanziale e vitale per chi deve liberarsi dalle catene che ti tengono legato a terra.
E quindi studi, studi, leggi, leggi, osservi, impari, ti vergogni, ma vai avanti.
Finchè trovi il muro. 
Questo muro, la precarietà. Precarietà della vita, non solo del lavoro, necessità di sopravvivere e quindi di non poter essere realmente quello che vuoi, perchè non hai una rete di salvataggio, perchè non c'è nessuno che ti ha insegnato come stare al mondo in una società che ti divora, ti consuma, ti annichilisce.
Precarietà del sentirti precario, di una lotta che è impari. Non si tratta soltanto di avere un lavoro sottopagato e a tempo. No, è più complicato. Si tratta di avere coscienza che la tua condizione non può cambiare, che questo paese non ti permette di salire, ti tiene in quilibrio su un filo e quando ti stanchi, beh, ti rendi conto che devi scendere a terra. Ridiscendere quel gradino.
E stai lì a chiederti se è stato tutto inutile.

Ps: forse qualcuno, prima o poi, capirà che in Italia il vero, grosso, insormontabile problema è quello della mobilità sociale. e sarà sempre troppo tardi.

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